Mamme che perdono il lavoro: la storia di Alessia - Mammeacrobate

Quando scoprii di aspettare il mio primo figlio l’autunno era alle porte. C’era ancora l’afa delle tipiche ottobrate romane. Portavo una maglietta blu. E non immaginavo che niente sarebbe stato più come in quel giorno.

 

Tornavo dalla redazione con il pensiero fisso su quel ritardo di pochi giorni, in mezzo al traffico, ferma al semaforo, guardavo il mio viso riflesso sullo specchietto dello scooter. Un figlio avrebbe significato niente più motorino, almeno per un po’. Non sapevo che di lì a poco avrebbe significato anche “niente lavoro”.


Ero laureata da 3 anni e avevo sempre lavorato con contratti a progetto. Sempre senza poter usufruire del titolo di giornalista professionista . Ma in fondo mi andava bene. Mi sembrava di avere tutta la vita davanti, tutte le possibilità per poter ambire a un contratto vero e proprio. Desideravo quel figlio e con tutta l’incoscienza di allora, mai e poi mai avrei immaginato che quella vita che cresceva dentro di me avrebbe potuto mettermi i bastoni in mezzo alle ruote.

 

Quando il test risultò positivo mi sentii felice. Di una felicità che non sapevo esprimere. Non avevo mai fantasticato sulla mia vita da mamma, né mi chiedevo se fosse troppo presto. Sapevo di averlo voluto e i miei quasi 28 anni mi sembravano perfetti.
Tenni il segreto per un po’ con i miei colleghi. Ma avevo voglia di condividere la mia gioia con loro.  Dietro a quelle congratulazioni di rito, però, si materializzava la possibilità di una ipotetica forza lavoro in meno: le assenze per le visite, l’impossibilità di essere efficiente fino alla fine, il parto e i mesi di congedo. Da contratto non mi aspettava nulla. Lo sapevo. Ma contavo sulla buona fede del mio capo, dell’editore. In fondo con lo stesso contratto a progetto durante l’estate mi ero assentata un mese per matrimonio e viaggio di nozze ed ero stata pagata, nessuno aveva protestato. Non pensavo come a una minaccia neanche il contratto che andava in scadenza proprio nel mese in cui sarebbe dovuto nascere mio figlio. Mi sembrava tutto estremamente naturale: mi sarei assentata per l’estate, nei suoi primi 3 mesi di vita, e poi avrei ripreso a bere birra e scrivere di calcio come avevo sempre fatto da quando avevo abbandonato i banchi dell’università.

 

Capita però che a volte la vita non va proprio come ti immagini. Capitano gli imprevisti che deviano il corso dell’esistenza. Il primo imprevisto si materializzò una mattina di novembre: un’emorragia di sangue fu il primo campanello d’allarme di una gravidanza che da quel momento non avrebbe avuto nulla di normale. Con le prime minacce d’aborto la mia ginecologa mi invitò a rassegnarmi a una maternità anticipata. Maternità che da contratto non mi spettava: ero a progetto. Anche se di fatto avevo orari, un capo e delle direttive da rispettare.

 

Volevo lavorare. Non sopportavo l’idea di vivere 9 mesi da malata. Ma la verità è che nonostante mi sforzassi di dire che andava tutto bene qualche meccanismo in me si stava inceppando. Osservai due mesi di riposo. Mi venne sospeso il contratto, e non fui nemmeno avvertita. Lo scoprii a gennaio, con la pancia che ormai si vedeva, attraverso il mio conto on line. L’azienda aveva deciso di chiudere i rubinetti perchè, motivazione ufficiale, ero incinta. Se solo io avessi avuto una polmonite, una brutta influenza, una malattia infettiva… solo allora il discorso sarebbe stato differente. Ma io avevo una vita dentro di me. E per preservarla non ero meritevole di ricevere uno stipendio. Piansi. Ricordo che urlai, imprecai. Senza pensare a quella storia che arrabbiarsi fa male al bambino. Mi sentivo defraudata di qualcosa che mi spettava. E per la prima volta immaginai la mia vita con mio figlio e senza lavoro.

 

Fu in febbraio che seppi di aspettare un maschio. Ma in realtà lo sapevo dal primo momento. Non perchè io sia una maga, semplicemente perchè avevo sempre sognato che un giorno, uscendo da scuola, avrei accompagnato mio figlio all’allenamento di pallone. E l’avrei guardato correre in quell’immenso campo di calcio. Non avevo potuto io, da piccola. Avrei coronato un sogno, solo un piccolo e innocuo sogno, attraverso lui. Fu sempre in febbraio che decisi, concorde con la mia dottoressa, che avrei provato a tornare a lavoro. Fu più un atto di testardaggine, un affronto a chi non mi aveva sostenuta. Ero stanca. Il tragitto casa-lavoro era lungo e pericoloso nel mio caso. Ma non intendevo perdere quel posto che significava tanto per me.
Una domenica mattina di fine febbraio, quando avevo da poco girato la boa della metà della gravidanza, arrivò la seconda tragica emorragia. Chiamai in redazione. Fu il primo pensiero. Avvertii della mia assenza. Senza pensare che in quella stanza fredda d’inverno e calda d’estate di un palazzo della Roma bene, io non ci avrei più rimesso piede.

 

Non sapevo cosa mi attendeva. Non sentivo dolore. Ma avevo paura.
Attesi il mio turno senza immaginare la gravità della situazione. Quando entrai in visita al pronto soccorso ci furono attimi di panico fra i medici: trasferitela in sala parto, è l’unica frase che il mio cervello ricorda come un mantra. Parto aperto di quasi 3 cm e sacca in vagina fu l’impietosa diagnosi. Firmai e acconsentii per un cerchiaggio d’urgenza: chiusero il mio collo dell’utero come una sacchetto della spesa e mi dissero di pregare che quella fettuccia avrebbe retto il peso del mio cucciolo.
Rimasi 15 giorni immobile nel letto. Altri 15 potendo almeno compiere il tragitto letto-bagno, bagno-letto. Al lavoro non pensavo anche se mi arrivò lo stipendio di febbraio, mese in cui avevo lavorato. Tornai a casa quasi per Pasqua, sbattuta fuori dal reparto di ginecologia per necessità di letti. Non ero fuori pericolo, oggi lo so, ma i medici si lavarono la coscienza con una doppia somministrazione di Bentelan. Servirà ad accelerare lo sviluppo dei polmoni, dissero.
A casa osservavo il riposo assoluto e facevo scorpacciate di riviste di moda. Non ero pronta a diventare mamma, non sapevo che carrozzina avrei acquistato, quale biberon e lettino avrei scelto. Quell’imprevisto così doloroso mi faceva restare in bilico. E così non riuscivo neanche a immaginare che volto avrebbe avuto il mio piccolo. Avevo paura che non ce l’avrei fatta a dare la vita a quel bimbo che chiedeva alla sua mamma di resistere.
Contavo le settimane e mi sembravano lunghe come anni. Ogni giorno era più difficile del precedente. La pancia non mi sembrava mai abbastanza grande anche se io ingrassavo a vista d’occhio.

 

Una mattina di aprile, 70 giorni prima della data presunta, sopraggiunsero le contrazioni da travaglio. La corsa all’ospedale che avevo lasciato neanche un mese prima servì solo a far nascere il mio primo figlio, con parto cesareo d’urgenza (nella sala d’emergenza per non farmi mancare nulla). Rianimato e intubato appena uscito dalla pancia, quell’esserino di 1770 kg mi precluse la gioia di sentire quel vagito primordiale, inno alla vita. Non lo vidi, se non 24 ore più tardi. Seguirono 31 giorni interminabili nel reparto di neonatologia alla fine dei quali come in una favola a lieto fine il mio nano di 2 kg varcò la soglia della nostra casa. Che diventò anche la sua.
Da quella domenica di fine febbraio quelli che erano stati per anni i miei colleghi sparirono. Ma non tutti a onor del vero. Ci fu qualche timido interessamento sulle sorti del piccolo nato due mesi prima del tempo da parte di qualcuno. Dell’editore, tuttavia, non vidi neanche più l’ombra. E il mio contratto non venne rinnovato.

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7 Comments

  1. Cara Alessia, il tuo racconto mi ha commossa 🙂
    Avrei anche io da raccontare tante cose… ma in breve posso dire che di sti tempi il lavoro lo perdi anche se sei assunta da 10 anni… è capitato a me, allo scadere del primo anno di vita della mia bimba (arrivata dopo ben 4 anni di tentativi) la doccia fredda: licenziata causa calo del lavoro… eppure di lavoro ce n’era vista la richiesta continua di collaborazioni da esterna… ma x legge dopo un anno si puo’ licenziare. Non ero più flessibile come prima… meglio segarmi!
    Ho avuto anche io un periodo bloccata a letto nel reparto di patologia e ho visto tante mamme di prematuri e tanti parenti guardarli attraverso quella “vetrina” che il più del tempo aveva le tendine abbassate per non distrurbarvi. Ho visto la gioia dei genitori che finalmente dopo mesi portavano a casa la loro piccola creatura, ho visto il miracolo dei neonati di 700 gr lottare e sopravvivere. La mia bimba è nata con un anticipo di sole due settimane.
    Ora ha due anni, io continuo a non aver lavoro se non a ore…chiamata dalla sera per la mattina… a volte la paura che non avro’ piu’ un “lavoro sicuro” non fa dormire ma poi guardo la mia bimba dormire serena.. e penso che ha avuto la fortuna di avermi vicina per tutto questo tempo, cosi’ importante per il suo sviluppo… e allora la paura passa.
    Il mio post su facebook al compimento del suo anno fu: non fate figli, vi licenzieranno. Purtroppo è una realtà condivisa da molte donne ma i tempi cambieranno, e noi sapremo come calvalcare l’onda, siamo donne d’altronde :))) FORZA!

  2. Leggere le vostre storie mi rattrista molto. Io sono mamma di una bimba di 16 mesi e sono tornata al lavoro dopo la maternità obbligatoria. Dopo aver letto tante storie come quella di Alessia mi reputo fortunata di aver avuto un datore di lavoro che ha compreso le mie “problematiche” di mamma e ha fatto di tutto per venire incontro alle mie esigenze. Questo lo dico perchè ci possa essere ancora una speranza di poter fare i bimbi senza perdere il proprio lavoro.

    • MammeAcrobate

      Barbara, hai fatto bene a lasciare il tuo commento, è vero, c’è bisogno di speranza perchè non sempre si parla di mobbing o di licenziamenti dopo la maternità… diciamo che spesso è così ma non sempre, grazie che ce lo hai ricordato!!
      M.

  3. Mi fa molto piacere leggere testimonianze positive 🙂 grazie!!

  4. Cara Alessia, ho letto la tua storia, che in parte mi ha ricordato la mia prima gravidanza, e mi sono indignata. Indignata verso questa società che non permette a noi mamme di vivere serenamente uno dei periodi più belli della nostra vita e della vita dei nostri bambini. In fondo cosa sono 5 mesi, 1 anno, nell’arco di una vita lavorativa di 30-40 anni? perchè noi donne e mamme dobbiamo sacrificarci, lottare e soffrire per fare quello che è naturale che una donna faccia: avere un bambino? Questa società del consumo ha accellerato le nostre vite e ci ha fatto perdere il senso delle cose. Leggendo la tua storia mi ci sono in parte rispecchiata. Anch’io, quando sono rimasta incinta la prima volta, avevo un contratto a progetto in scadenza. Anch’io sono stata costretta a letto per lunghi mesi, testardamente mi sono sempre alzata per continuare a lavorare, per dimostrare che, anche incinta, potevo essere produttiva. Poi le contrazioni alla 24esima settimana, il ricovero e gli utlimi tre mesi a letto. I sensi di colpa per essermi assentata dal lavoro senza preavviso, l’imbarazzo verso i miei colleghi per non averli salutati…ma poi è nato mio figlio e ho dimenticato tutto! A un mese dalla nascita leggo di un concorso in Regione, penso al mio contratto in scadenza e decido di provarlo. Arrivo terza. l’anno dopo mi assumono! dopo pochi mesi resto incinta di nuovo e questa volta la gravidanza va magnificamente! Sto vivendo la mia seconda maternità con gioia, so che domani potrò rientrare a lavoro senza ansie, che avrò il tempo da dedicare ai miei due cuccioli e trovo profondamente ingiusto che questa serenità possa derivare solo dal fatto che sono riuscita ad avere un impiego nel pubblico. La maternità è un diritto e come tale andrebbe tutelato in assoluto, anche nel settore privato. Alessia, che dire? Cerca di vedere il bicchiere mezzo pieno: potrai dedicare al tuo ometto tutto il tuo tempo. Vedrai che il lavoro arriverà, ci penserà il tuo bambino a farti vedere la vita e il lavoro sotto un’altra luce… In bocca al lupo!

  5. Eleonora

    Carissima, carissime, purtroppo la tutela della maternità dovrebbe essere garantita dallo stato e invece nò, permette che accadano situazioni come quella di Alessia e molte altre.E poi, anche se una il lavoro non lo perde, come si fa a tornare a lavorare con una creatura di tre mesi?Chi se ne occupa?Praticamente nessun nido accoglie un bimbo di tre mesi, le tate sono un’incognita e la nonna…beato chi ce l’ha!Con il 20% dello stipendio, come si campa?
    Quando io sono rimasta incinta lavoravo come maestra in una scuola materna parificata…suore…e udite udite, non solo hanno cercato di lasciarmi a casa usando il “periodo di prova”(ero al terzo anno di rinnovo di un contratto a tempo det. e grazie alla minaccia del sindacato di una vertenza e della rivolta di molte care mamme dei bimbi non ci sono riusciti) ma hanno anche avuto la cura di non rinnovarmi il contratto ovviamente, scaduto ai tre mesi del mio piccolo.Ecco come anche la chiesa cattolica tutela la famiglia e sostiene le nuove nascite!!!L’ipocrisia peggiore perchè mascherata dietro prediche e moralismi.