Dal nido alla materna: delega educativa, addio! - Mammeacrobate

Ospitiamo con piacere un interessante guestpost di Paola Liberace, autrice del libro Contro gli asili nido. Politiche di conciliazione e libertà educativa (leggete qui la sua intervista). Il tema di questo post apre a molte riflessioni, aspettiamo i vostri commenti e opinioni.

A dire la verità, il passaggio dal nido alla materna non ha fatto che irrobustire le mie convinzioni. No, non si tratta di contrarietà ai nidi – come pensa ancora qualcuno che si è fermato al titolo del mio libro – ma dell’ illusione della delega educativa, che si dimostra sempre più labile man mano che il tempo passa e i bimbi crescono (e le mamme invecchiano, si sa…). In altre parole, se fino ai tre anni di vita sembra possibile risolvere i problemi di conciliazione affidando i bambini alle educatrici, se non per tutta, per la gran parte della giornata, con l’ ingresso alla scuola dell’ infanzia questa apparenza si scioglie come neve al sole.

Non è solo una questione di orari: è vero, le scuole aperte fino alle 18 si contano sulla punta delle dita, e sono soprattutto private (ma molte, anche pubbliche assicurano il “ servizio” almeno fino alle 17); fare affidamento solo su di esse, se si lavora a tempo pieno e in una grande città, è
quasi un’ utopia. Ma a ciò si aggiunge il fatto che la frequenza di una scuola dell’ infanzia non è più semplicemente un fatto di organizzazione il più possibile piacevole del tempo extrafamiliare dei bimbi. I bambini da tre a sei anni iniziano un vero e proprio percorso formativo, che implica
da parte loro un impegno fino a quel momento non richiesto (contrariamente a quanto di solito si sostiene a proposito dello scopo “ formativo” dei nidi d’ infanzia: e per fortuna, aggiungerei) e una presenza più assidua. Non solo la loro presenza a scuola; ma anche quella dei loro genitori, dei
quali si richiede di fatto un coinvolgimento superiore rispetto alla semplice informazione, all’ atto di prelevare il bambino, sul menu del pranzo e sulla ninna pomeridiana.

Con la scuola dell’ infanzia si apre un meraviglioso mondo di incontri, riunioni, confronti, feste, che non riguarda solo il bambino, ma anche e soprattutto i suoi educatori primari, i genitori. Gestire questo carico di partecipazione, e la relativa responsabilità, semplicemente demandandolo ai nonni (o addirittura alle tate) comincia a suonare riduttivo. D’ altro canto, le stesse esigenze del bambino, le sue reazioni all’ ambiente, agli stimoli e alle esperienze si fanno più elaborate, sempre più difficili da soddisfare per interposta persona. O per meglio dire, è l’ espressione di queste esigenze che diventa più esplicita rispetto alla fase della prima infanzia, quando la stessa reazione alla separazione dalla madre – e parlo di reazione profonda, non dei primi cinque minuti di disperazione – resta difficile da decifrare per i non “ addetti ai lavori” . Tanto difficile da generare la durevole impressione di una sostanziale accondiscendenza del bambino di fronte alla delega della sua cura: impressione tanto rassicurante quanto potenzialmente fallace.
Ricordo quando, di fronte alle mie rimostranze di neomamma riluttante a passare, a pochi mesi di vita, dalla cura quotidiana e personale dei miei figli a una separazione estesa per dieci-undici ore al giorno, molte amiche e mamme più “ navigate” mi obiettavano che i bambini hanno tanto più bisogno di attenzioni quanto più crescono. Di fronte alla prima esperienza con la scuola dell’ infanzia mi sembra invece di poter dire che questo bisogno non cambia mai, ed è sempre grande, enormemente grande. Cambia semmai la nostra percezione di questo stesso bisogno, che con l’ ingresso alla scuola dell’ infanzia si fa più pressante, meno eludibile, più evidente. Tanto evidente da minare alla base il progetto di una conciliazione tra famiglia e lavoro basata unicamente sulla delega educativa, come quella che si continua a proporre da più parti, e che dopo i tre anni
stride ancora più sonoramente con la realtà e le esigenze crescenti dei bambini.

Author

Mammeacrobate.com è un portale di informazione e confronto su maternità e genitorialità, uno spazio nel quale le mamme si raccontano e si scambiano consigli, racconti ed esperienze di vita grazie alla collaborazione con professioniste che mettono a disposizione di altre mamme e donne le loro competenze e grazie a mamme che si raccontano per socializzare problematiche o stralci di quotidianità.

27 Comments

  1. dr.ssa Irene Koulouris

    Faccio un po’ fatica a cogliere il senso del discorso, malgrado abbia letto con attenzione l’articolo più di una volta…
    Secondo me non ha senso in generale parlare di “delega educativa”! La scuola fa la sua parte, è un’istituzione formativo-educativa che il bambino frequenta parte della giornata. La famiglia svolge un altro ruolo, diverso e complementare e sempre importante.
    Le due parti sono entrambe “buone” e “necessarie” e non è pensabile affidare il piccolo solo all’una o all’altra. Se il genitore non può essere presente per molte ore nella vita del figlio poichè lavora sarà un’altra figura affettiva a svolgere le sue veci (un nonno, una zia, una baby-sitter…) e rispondere ai suoi bisgoni età-specifici, in modo diverso da come deve e puo’ fare la scuola.
    I genitori o chi per essi hanno un ruolo partecipante e fondamentale sempre, diverso in qualità dal nido alla materna perchè diversi (ma non minori o maggiori) sono i bisogni del piccolo. Non ritengo che un 4enne abbia un’esigenza di essere portato dalla mamma alle feste maggiore di quanta ne abbia un 2enne di leggere insieme un libro. Forse è più “esplicita” nel senso che ora è in grado di verbalizzarla, ma anche nella prima infanzia le comunicazioni sono presenti e chiare, se le si sa e vuole accogliere.
    Il bambino ha bisogno di spazi formativo-sociali-educativi (scuola) e di spazi di attenzione e affetto individualizzati (casa). Se è possibile per un genitore essere presente e partecipe ovviamente è meglio! Ma se le condizioni familiari non lo permettono può crescere felice e sereno comunque, se nelle mani “giuste”

  2. dr.ssa Irene Koulouris

    Sarebbe auspicabile che i genitori si sentissero coinvolti anche rispetto alla prima infanzia e che non si accontentassero di sapere cosa il figlio ha mangiato o quanto ha dormito. Per i neonati sono importanti indicatori di benessere, comunque il genitore dovrebbe essere informato anche su cosa il bambino impara, su come si relaziona coi compagni e molto altro. Tantopiù in età da nido, quando da solo non sa raccontare granchè!
    Le esigenze cambiano in qualità più che in quantità. Se davvero vogliamo metterle sulla bilancia… Un bambino in età prescolare ha meno “bisogno” di una presenza genitoriale continuativa di quanto non ne abbia un piccolo in età da nido, quando ancora la relazione di attaccamento prima e di costanza d’oggetto poi non sono consolidate

  3. la Dott.ssa Koulouris anticipa la mia stessa perplessità rispetto al senso dell’articolo. Aggiungendo che nè come madre nè come professionista dell’educazione (quindi su due fronti apparentemente analoghi) ho mai pensato che occorresse dare/ricevere … una delega educativa.
    Trovo vi sia una corresponsabilità educativa che va condivisa, ognuno nel suo ambito, l’educazione naturale dei genitori e l’educazione professionale nei nidi, nelle materne, ed è il processo di incontro e condivisione del senso di crescita di un bimbo che rende un significato accresciuto alla genitorialità e alla funzione educativa di tali servizi.

    ma davvero mi chiedo quale sia il senso del post e il significato della perplessità relativa alla delega, e magari il mio commento perde di senso per via di qusto non comprendere …
    se così è me ne scuso …

  4. Provo a dare la mia opinione anche se anch’io non ho ben chiara la conclusione a cui voleva arrivare l’autrice del post. Se ci si preoccupa del fatto che alla materna è più difficile trovare una struttura che si occupi dei bimbi fino alle 6 e mezza è assolutamente vero, è più facile con i nidi! Ma forse la preoccupazione è per queste ore (dalle 4 alle 7) che in un età molto importante si trascorrono ormai dai nonni o con la babysitter (e quasi sempre davanti alla tv) mentre con i genitori si riesce a mala pena a cenare per poi crollare addormentati. forse la preoccupazione è legata al fatto che la maggior autonomia dei 4enni e 5enni e da lì in sù, fa cadere nell’equivoco che noi siamo più facilmente sostituibili da parenti o tate. Credo sia vero che in questo equivoco ci cadono molti. Purtroppo ci si conforta di questa falsa verità perchè il più delle volte non c’è scelta… restano solo i weekend e speriamo che bastino perchè io alla favola della “qualità conta più della quantità” ci credo così e così, la qualità è fondamentale ma la quantità minima sufficiente siamo sicuri di garantirla..?? Forse il post voleva far riflettere su questo, su quanto si delega oggi, probabilmente oltre misura rispetto ai bisogni reali dei bambini di contatto e condivisione con i genitori e NON con i vari (per quanto importanti) sostituti… è l’attenzione del genitore anche meno creativo meno divertente meno atletico e meno intelligente dell’educatore di turno a costruire in ogni caso l’autostima e la maturità emotiva e psichica del bambino, il mondo esterno è un aiuto portentoso se resta un aiuto e non diventa un sostituto… e quando supera le 9 ore giornaliere sembra più un sostituto che un collaboratore… Una miglior conciliazione tra lavoro e famiglia è un obbiettivo da raggiungere al più presto.

  5. … D’altronde c’è poco da fare ! Il part time è un sogno e il lavoro una necessità… quindi sperimo che il prossimo week end ci sia IL SOLE!!!!!!!!! 😉

  6. mi sembra che potremmo anche pensare che esiste una compartecipazione nella costruzione del mondo di un bimbo, tra i genitori, la famiglia allargata, le strutture educative.

  7. MammeAcrobate

    Intervengo innanzittutto per informarvi che l’autrice del post è in questo momento all’estero per lavoro e non credo che riuscirà ad intervenire in questa discussione se non tra qualche giorno.

    Mi permetto di anticiparvi la mia interpretazione.
    Paola Liberace è una giornalista, nonchè autrice del libro Contro gli asili nido (di cui potete leggere sul nostro sito, nella sezione @ork, una sua intervista di qualche mese fa), che si occupa da tempo di politiche di conciliazione lavoro-famiglia. Le sue riflessioni sono prevalentemente indirizzate verso tutte quelle forme di flessibilità che rendono la conciliazione possibile e soprattutto permettono alla donna, in particolar modo, di poter seguire personalmente i propri figli, senza delegare il loro accudimento ad altri.

    In questo post le sue riflessioni riguardano la ‘delega educativa’ (e capisco e comprendo l’obiezione della dott.ssa Koulouris) intesa come un dover delegare ad altri anche quelle attività extra scolastiche che dai 3 anni in su’ sicuramente aumentano rispetto a quando i bimbi erano più piccoli.

    Comunque quando potrà, interverrà l’autrice direttamente.
    Grazie a tutte per questo scambio interessante di punti di vista.

  8. MammeAcrobate

    …Con la scuola dell’ infanzia si apre un meraviglioso mondo di incontri, riunioni, confronti, feste, che non riguarda solo il bambino, ma anche e soprattutto i suoi educatori primari, i genitori. Gestire questo carico di partecipazione, e la relativa responsabilità, semplicemente demandandolo ai nonni (o addirittura alle tate) comincia a suonare riduttivo…

    Credo che il senso di tutto il post sia facilmenmte individuabile in questa frase. Il discorso non è tanto riferito alla ‘delega educativa’ verso la scuola (che giustamente ha un suo peso e importanza come la dott.ssa Koulouris ci ricorda) ma verso la ‘delega’ di tutti quei momenti extra scolastici che spesso, per mancanza di tempo dovuta alla propria attività lavorativa (e qui la polemica è rivolta alla non flessibilità del lavoro che qui in Italia è un grande problema, mentre in altri Stati strumenti di flessibllità come il telelavoro, e-work, part time, etc.. sono notevolmente utilizzati), si è costretti a demandare ad altri (nonni, baby sitter, doposcuola, etc…)

    Spero di aver ben interpretato l’autrice e di avervi aiutato a comprendere meglio il pensiero di fondo di questo post.
    Ciao a tutte!

  9. Giusto. Credo sia importante che l’autrice possa chiarire la sua tesi e che questo ragionamento possa sviluppare. Probabilmente è talmente complesso e tiene insieme così tante necessità che va appunto trattato complessivamente, e tenendo unite più riflessioni. Perchè un conto è la conciliazione lavoro-maternità, il diritto della donna alla maternità, il diritto della donna al lavoro, il diritto alla famiglia a servizi educativi di qualità, il diritto del bambino alla famiglia ma anche il suo diritto ad una socialità e a proposte educative complesse, che la famiglia nucleare – ristretta e compresssa – non può più offrire.
    Forse l’autrice mette il focus sul tema della conciliazione, ma la figura sfondo, la scena in cui occorre muoversi è pluricomplessa. Non è possibile pensare che una società più complessa sia supportata da una famiglia di 3/4 persone, priva di rete sociale, ed occorre ritrattatre e tematizzare la questione delle deleghe.
    Nelle famiglie allargate, di una volta, le deleghe erano necessaria, poi la famiglia nucleare su è vista collocare ogni responsabilità di ogni aspetto: casa, figli, lavoro, anziani, perfomance varie ma di alto livello qualitativo, aspettative molto alte….
    E i figli piccoli che una volta erano curati da una pluralità di figure, anche solo fratelli maggiori, sono stati “dichiarati” esclusivi oggetti di cure materne o al massimo genitoriali …
    Va da se che la delega va ripensata …
    ma in un quadro che non escluda alcun punto …

    In ogni caso ecco una difesa dei nidi ad opera di M. Trinci
    http://leggi.unita.it/leggi/?dd=25&mm=10&yy=2010&ed=nazionale (pagine 30 e 31)

  10. sinceramente non ho mai inteso l’asilo come una ‘delega educativa’, ma come una scelta che permettesse di dare a mio figlio un’ampia varietà di interazioni e relazioni sociali ed educative. quindi non un’educazione delegata ad altri, ma un’educazione compartecipata e coadiuvata da persone competenti. ma i primi educatori restiamo noi genitori, anche se l’aiuto e il consiglio di persone esperte è preziosissimo, e sinceramente mi chiedo come tanti genitori possano farne a meno. non so se e cosa cambierà con l’ingresso alla materna ma non ho mai pensato che bastasse depositare il bambino e lasciarlo lì 8 ore al giorno per avere la coscienza a posto. al nido organizzano spesso incontri e riunioni, feste e quant’altro e abbiamo sempre fatto in modo di andarci. sarà così anche in seguito, mi auguro!

  11. Sono contenta che Paola sia arrivata e chiarisca il suo pensiero, ma non solo sarebbe interessante che il dibattito crescesse e scatenasse ancora più dibattito e non polemiche, si intende.
    Come si dice, è un bene “stressare” la domanda sui bisogni dell’infanzia, sull’educazione, delle madri e delle famiglie, capire quanti bisogni sottende, e quali servizi andrebbero progettati: credo la conciliazione non sia l’unica risposta possibile. Credo servizi più innovativi lo possano essere.
    I bisogni, di cui sopra, sono evidentemente spesso conflittuali e non facilmente ricomponibili.

    In realtà ci sono tutti sulla scena, stan lì a renderci difficile il capire le carte in tavola:
    la revisione sulla necessità del nido accanto alla sua funzione precoce di luogo socializzante,
    la necessità delle conciliazione unitamente ai bisogni di realizzazione professionale femminile,
    insieme ancora alle politiche di tagli che fanno ricadere sulla famiglia e SULLE tutte le prassi di cura(figli, disabili, anziani) prima date all’esterno.

    Detto questo mi chiedo tra i nonni e una babysitter non c’è una significativa differenza?
    Quante sono le famiglie che usano professioniste, regolarmente retribuite, e invece in quante utilizzanoragazzine/vicine/signore pagate in nero?
    Perchè anche qui i processi di delega mutano confini e modalità.

    Sinceramente io non credevo che si parlasse di delega totale, es genitori che lavorano dalle 7 del mattino alle 21, e che affidano i figli solo ad estranei; perchè è ovvio che in questo caso ci si chiede il perchè fare dei figli …… e quindi il discorso diventa un altro ancora, ed è comunque testimonianza di quanti pensieri vi siano attorno al fare i figli.

    Resta un ultimo nodo, quello della famiglia allargata, il clan, che invece mi parrebbe una deriva interessante (sempre che non la si usi per fare lavorare i bambini, appunto, ma il clan è un modello di riferimento invece che si trova in altre culture) rispetto alla chiusura sociale della famiglia nucleare che si trova un carico e una responsabilità assoluta nell’educare i figli, accompagnato al vissuto che questo sia l’unico buon modo di crescere i figli …
    E gli effetti si vedono dalla crescita dei servizi all’infanzia che raggruppano le famiglie, forse per superare quell’unicità, quell’esclusività, quell’essere l’unico riferimento valido… che le famiglie stemperano incontrandosi e scambiando esperienze.

    Si vede anche nel mondo mamme – blogger il tentativo di sfondare il muro della mamma – totale, in una comunità fatta di voci e di pluralità ….

  12. Molto bello questo argomento. Sono d’accordo con la dottoressa Liberace. Dico solo un paio di cose che mi sono venute in mente grazie alla mia esperienza (abbastanza recente) di mamma e di insegnante. Il bisogno più grande che hanno i figli nei confronti dei genitori è quello della RELAZIONE, e non dell’accudimento, come invece pensano la maggior parte dei genitori: l’accudimento credo si possa delegare anche “massicciamente” ad altre figure (nonni, baby-sitter o nidi…), ma la relazione assolutamente no. I figli prendono da noi la loro stessa identità e se noi siamo assenti la perdono, restano smarriti.
    Ma il compito “relazionale” è faticoso, molto più di quello dell’accudimento, perchè ti mette in discussione, nelle scelte, nelle posizioni, nei comporamenti, nella vita isomma. Per questo i genitori, fragili, spesso vi abdicano. Per questo i figli spesso non sanno più chi sono.

  13. Forse non mi è chiara una cosa, sia come madre, che come operatore “dell’educazione”, cosa intenda tu Paola, quando dici che esiste un modello che vuole sostituire il ruolo educativo dei genitori, alle agenzie esterne.
    Nella mia esperienza dei servizi la delega dei genitori è stata spesso ambivalente, e difficilmente totale; e se penso agli operatori educativi (chiamiamoli così, anche se in modo impreciso) anche essi si guardano bene da assumere una delega totale, alternando diverse modalità di usare la delega, ma appunto spesso in modo ambivalente.
    Così mi chiedo, e tu cosa ne pensi, da dove giunga questo atteggiamento di delega, forse è prioiritariamente una richiesta e necessità del mondo del lavoro?
    Perchè per la maggioranza delle mamme la separazione dal proprio bimbo è fonte di fatica, e gli operatori della scuola etc non hanno nessuna voglia di raccogliere una delega totale.

    Ma è indubbio che la famiglia nucleare è costretta, da molti fattori ad essere un luogo insufficiente alla socializzazione, dei bimbi, se non si giova di nonni, babysitter, rete sociale di amici con bimbi coetanei dei propri figli; e in città (ma anche nei paesini lo posso confermare) non sempre è facile trovare luoghi di socializzazione.
    Lo dico anche come madre che porterà al figlia due o tre mattine alla materna (sezione primavera per bimbi 2/3 anni) proprio per poterla fare vivere anche il gioco e la socialità con altri bimbi, del resto mi giovo di nonni, padre che lavora vicino a casa e porta/recupera la piccola e io ho lavoro “precario” ma anche fattibile in parte da casa che mi consente una certa conciliazione famiglia _ professione. Ma a 26 mesi la piccola ha bisogno di smettere di stare solo con me, con i nonni, con adulti, e credo sia un passaggio evolutivo molto importante. In questo senso, purtroppo, la scuola/servizi finiscono ad assolvere ad un ruolo che la società ha costretto in servizi strutturati, mancando i luoghi di aggregazione spontanea (parchi, cortili, giardini, strade .. etc etc). Così invece di correre nei prati i ragazzini lo faranno in palestre …
    Ma possiamo solo vivere nella civiltà/cultura che abbiamo e solo contribuire a migliorarla un pò.

    Resto però convinta che la sola famiglia, fermo restando che i genitori ne sono gli attori, davvero principali, sia insufficiente perchè la famiglia allargata, oppure la rete sociale contigua (paese, vicinato, quartiere cortile) si è svuotata di presente. Davvero fastidiose da un lato, ma utili a vivere sociale in un tessuto più coeso.
    Sono cresciuta giocando in cortile, tra 12/16 ragazzini di varie età, sotto l’occhio vigile e attento a ricordarci le regole di una burbera affettuosa portinaia, e la supervisione della madri che non lavoravano, e che ci controllavano e sgridavano, quando facevamo qualcosa di inappropriato ..

    Ma non si tratta di restare a rimpiangere il passato e alcuni punti favorevoli che aveva, o volerne solo ignorare le negatività, ma di riprogettare il presente e il futuro.
    Mi sembra che come genitori abbiamo davvero il dovere di spaccare il capello in 4 per capire cosa è possibile cambiare subito, quali modelli sono purtroppo necessari, quali auspicabili, sapendo tenere insieme il meglio del passato e del presente e le risorse disponibili ..
    Non è da qui che dobbiamo cominciare??
    Monica

  14. Credo di potermi allineare alla tua esperienza su molti punti e alle stesse conclusioni. Io ho una bimba di 6 anni e una di 2 entrambe entrate al nido a 9 mesi. Esperienza (il nido) straordinaria e positiva sia per me che avevo un assoluto bisogno di recuperare uno spazio personale, sia per loro 2 che hanno trovato un ambiente formativo eccellente a tutti i livelli. Sono stata fortunata, ma soprattutto sono stata fortunata a trovare un lavoro che si concludeva alle 16! Al rientro dalla seconda maternità ho perso il lavoro a causa della crisi che ha colpito l’azienda e io mi sono trovata a dover scegliere tra un lavoro di otto ore (+ 3: andare -mangiare – tornare!Quindi fuori casa dalle 8 alle 19) e il tentativo che sto portando avanti a fatica e forse presto fallirà… di un lavoro autonomo, nella illusione di poter continuare a portere a casa uno stipendio e dedicare alle mie bambine quelle 4 ore al giorno che a me erano sempre sembrate il numero necessario e sufficiente per poter costruire una relazione soddisfacente per tutti. Ho tentato la strada economicamente più rischiosa (nella illusione anche di trovare un’altro part time) xche mi sono resa conto che la mia grande ne avrebbe sofferto molto più di quanto potessi fino ad un anno prima immaginare, vivere con lei il primo anno di materna è stato illuminante proprio come dici tu Paola. Tornare al lavoro di 8 ore subito dopo la maternità, a mio avviso spesso non consente a molti genitori di accorgersi di queste nuove esigenze di relazione che sorgono nel tempo e di cui stiamo parlando, perchè i nostri bambini sono molto in gamba, acquisiscono un’autonomia straordinaria e cercano di compensare il loro bisogno di noi, attraverso le figure che li circondano in nostra assenza, ma è un’illusione il fatto che questo possa bastare. Soltanto noi li accompagnamo continuativamente dalla nascita alla maturità, gli educatori invece cambiano periodicamente. Questi cambiamenti possono essere motivo di crescita o al contrario fortemente destabilizzanti e, [u]sempre solo secondo il mio parere di mamma[/u], non poter contare sulla [b]presenza quotidiana concreta dei genitori[/b], acuisce una diffusa tendenza all’individualismo, i bambini con questi cambiamenti di interlocutori hanno l’impressione di avere come punto di riferimento principalmente se stessi e di dover badare da soli ai loro interessi. Se alle spalle ci sono anche i genitori queste esperienze li aiutano a crescere in un sentimento di sicurezza e serenità affettiva, ma senza il sostegno dei genitori può accadere che lo slancio positivo verso gli altri si riduca man mano dal punto di vista relazionale-affettivo di fiducia e desiderio di condivisione, col rischio di sublimarsi in desiderio di possesso. [i]Le mie cose sono mie e non se ne vanno, le persone invece non sono affidabili[/i]… [b]E’ chiaro che sto volontariemene estremizzando [/b] ma in giro la realtà con varie sfumature sembra sempre di più questa… la continuità e la concretazza della relazione con i genitori (e aggiungerei tra i genitori …), insieme ovviamente alla qualità della stessa, secondo me sono elementi INDISPENSABILI per “imparare l’affettività” e cioè i concetti di amore e rispetto dell’ individuo, l’apporto esterno sarebbe auspicabile ma non ha il carattere “insostituibile” della relazione con i genitori anche se di fatto oggi per necessità o per un sentimento di inadeguatezza, per quel che vedo intorno a me, si delega abbondantemente e[b] “SERENAMENTE”!!!![/b]

  15. Sempre più d’accordo con la posizione della dott. Liberace, le pongo anche questa domanda: nido e materna sono luoghi dove i bambini imparano in modo, come dire, “controllato”, cioè organizzato, schematico e chiuso dentro gli ambienti della scuola. L’imprevisto non è contemplato; come dire che la realtà in cui si impattano è pilotata secondo uno schema precostituito. Siamo proprio sicuri che questo aiuti i bambini ad affrontare il mondo? Cosa c’è della vita reale in tutto questo? Non mi sono fatta un’opinione ben chiara su questa questione e mi piacerebbe sapere cosa ne pensa lei (sperando di non essere andata troppo off topic).

  16. Non credo che polarizzare le posizioni possa portare avanti il dibattito, o per meglio dire il dialogo.

    Non intendevo dar contro ad una tesi “contro gli asili nidi”, che è inevitabilmente “rivoluzionaria”, ma al limite interrogare la tesi, provare a vedere dove va a finire, e rimettere a tema la complessità educativa, che resta a mia avviso (come madre e come consulente pedagogico) una questione non risolvibile solo con madre e padre.

    Il che non significa, com’è ovvio, pensare che i genitori debbano sentirsi esautorati dal loro ruolo educativo.

    Invece è interessante, di questa tesi, (lo desumo, e forse, con imprecisione, da letture in rete) la critica ad un modello educativo [i]massiccio e statale[/i], Almeno questa è la mia interpretazione del tema, un modello che rischia appunto di generare l’esautoramento dei genitori, e la loro crisi educativa.
    Come dire se delego ad altri perdo in qualche modo il mio essere genitore – infatti questi sono espressi bene nei post di alcune persone-.

    Credo sia una lettura interessante, perchè questa è stata la risposta massiccia dello stato ad una domanda/bisogno massiccio delle donne di entrare nel mondo del lavoro, in una dimesione lavorativa che prevedeva sino a poco tempo fa anche un lavoro a full time e a tempo indeterminato.
    Oggi le donne e le famiglie, non solo hanno esplorato il mondo del lavoro, e comprese le possibilità, ma chiedono anche un mondo del lavoro più a misura di donna/mamma.
    In più la globalizzazione e la precarizzazione hanno aperto nuovi fronti, scoperte le criticità e impossibilità nel monolite “lavoro”.

    Per cui la tesi diventa interessante, perchè apre alla richiesta di una serie di possibilità di conciliazione.
    Ed è per questo che insisto sulla riflessione sui termini e sulle parti che è possibile delegare.

    Perchè è in quelle pieghe che come genitore posso capire quali servizi possono meglio rispondere alle mie esigenze, a quelle del mio bambino, a quelle della possibilità di lavorare.

    Mi sembra, se non l’ho già detto, che la grande risorsa del web sia la circolazione delle idee ma anche il dibattito attorno ad esse, che crea a sua volta richieste/esplicitazione di bisogni/pressioni a chi progetta e e gestisce servizi.

    Il mio pensiero va nella direzione di aprire le domande, capire i bisogni e le culture che generano un certo modo di educare i figli, i servizi che esistono, criticarli seriamente (lo faccio persin troppo come madre e come operatore), ma nella logica che spinge al cambiamento migliorativo.

    Perciò spero che da qui in poi la discussione resti partecipata, anche nelle differenze, dove sta collocata la possibilità – come genitori – di chiedere servizi all’infanzia più adeguati e un mondo del lavoro più intelligentemente volto a buon uso/rispetto delle “risorse” umane.

  17. Mi aggancio all’ultima osservazione di Paola, a cui devo un grazie di aver riportato il dibattito in modo da evidenziare le polarità e le singolarità, e la visione di insieme da cui possiamo ripartire.
    Sono d’accordo sul rischio che c’è “nell’ipernutrizione” formativa, ma anche questa è figlia dagli eccessi di cibo e di consumo cui siamo sollecitati. e acui dobbiamo capire come sottrarci.
    Viaggiando nei servizi educativi, all’infanzia, ai disabili e ai minori, ho visto a volte proprio questa ricchezza e ridondanza di offerta e di proposte, come se il tempo vuoto non fosse pensabile. Gli educatori pensano che siano i genitori a volerla, i genitori invece la vedono come una richiesta delle realtà educative.
    Con il risultato di un troppo che non permette i tempi vuoti per sedimentare e trattenere l’esperienza per i bimbi, e una grande stanchezza che i genitori e gli educatori si palleggiano.
    Ogni tanto mi chiedo ma perchè non si parlino, e perchè non ci parliamo (tra scuole/agenzie educative e famiglie)?

    Se la questione da ricomprendere è l’educazione mi pare che siano famiglie e operatori che devono cercare di dirsi alcune cose, e prima i genitori debbano cercare di condividere un pò il senso di questa educazione in una società che cambia e ci cambia.
    Ma sono luoghi come questo (mammaacrobate et simili) che ci permettono di farlo.
    🙂

  18. Paolo1984

    Preciso che non sono padre, non ho letto attentamente tutti gli interventi, non ho esperienze forse dovrei stare solo zitto, ma io penso che un bambino più “imprinting” , più influenze educative riceve da più persone, dai genitori, dagli operatori/trici degli asili (ovviamente dev’essere gente competente), dai nonni, dagli zii, dagli insegnanti, dalla baby sitter e meglio è. oltretutto l’asilo permette precocemente al bambino di entrare in contatto coi coetanei e non è cosa da disprezzare
    Insomma con più esseri umani entra in contatto e meglio è.

  19. Paolo1984

    E aggiungo che credo, e voi sarete d’accordo, che i bambini hanno bisogno della madre e il lavoro deve adattarsi alle esigenze di una donna che lavora e fa un figlio, ma dovrebbe fare lo stesso con il lavoratore che diventa padre, perciò ci vorrebbero congedi parentali per entrambi i genitori come avviene in sSandinavia.

  20. Paola Liberace

    Grazie a tutti dei commenti. Intervengo solo brevemente per chiarire l’equivoco che mi rendo conto possa essere sorto con la lettura dell’articolo.

    In effetti mi trovo in sintonia con la posizione di Irene Kouloris, nonché con quella di Mela. La delega alla quale mi riferisco non è infatti quella istruttiva e formativa, esercitata dai genitori nei confronti della scuola, ma quella educativa nel suo complesso – sono e restano, mi trovo d’accordo, due cose diverse. L’errore a mio modo di vedere è pensare di poter attribuire anche la seconda a soggetti terzi: nello specifico, ai cosiddetti “servizi per l’infanzia”, dai nidi alle tate. Un errore testimoniato dal fatto che, di fronte al passaggio alla vera e propria fase scolastica, questo modo di intendere la delega viene messo in crisi: per dirla con le parole di Mela, per i bambini di 4 o 5 anni i genitori non sono affatto più “sostituibili” da nonni o tate, come comincia a emergere con chiarezza.
    Ora, io sono personalmente convinta dell’insostituibilità delle figure genitoriali per quanto riguarda la prima infanzia: e mi sembra che il modello di conciliazione che viene solitamente proposto per questa fase, quello della totale delega della cura del bambino (magari tutti la pensassero come Cosmic) venga “smascherato” oltre i tre anni. Complice anche l’ambiente scolastico, i bisogni affettivi, emotivi e educativi dei bambini diventano più espliciti, e diventa sempre più difficile risolvere tutto affidandoli ad altri (nonni o tate, in mancanza ormai dei nidi). Peraltro, nelle famiglie allargate, ben lungi dal presupporre l’assenza genitoriale, la situazione era molto diversa da quella odierna: non da ultimo perché gli stessi bambini erano precocemente coinvolti in attività produttive (ciò che normalmente si trascura nel paragone).

    Due parole conclusive per quanto concerne l’articolo su l’Unità, citato da Monica Cristina Massola. Mi sono astenuta dallo scrivere al quotidiano per replicare, vista l’imbarazzante superficialità con la quale è trattato il mio scritto. Superficialità testimoniata dal fatto che l’articolista ha preferito limitarsi al titolo e alla citazione della quarta di copertina, invece di leggerlo. Se lo avesse anche solo sfogliato, avrebbe scoperto che nell’introduzione si parla di un’esperienza felice dell’autrice con un asilo nido; se poi lo avesse addirittura letto, avrebbe dovuto fare i conti con le diverse ricerche sull’affidamento ai nidi che vengono riportate, tra le quali quelle svolte nella DDR, in Israele e in Cina, che dimostrano esattamente il contrario rispetto a quella da lei citata nell’articolo. Ma si sa, argomentare è sempre molto più faticoso che minimizzare e demonizzare.

    Paola Liberace

  21. Grazie ancora a tutti dei commenti.

    Proprio di bisogni dell’infanzia e della correlata domanda di servizi mi troverò a parlare tra qualche settimana, a Torino, nell’ambito di un festival cinematografico dedicato all’infanzia. A questo proposito il mio parere resta che i servizi sono e restano utili, a patto che vengano intesi come supporti, e non come sostituti della responsabilità genitoriale e del relativo compito educativo. Una responsabilità, ci tengo a ribadirlo, mai messa in discussione nel corso dei secoli: e non solo perchè la concezione dell’infanzia cui ci riferiamo oggi data al massimo un paio di secoli fa, dopo la rivoluzione antropologica dell’Illuminismo e poi del Romanticismo; ma anche perchè la famiglia allargata (cui ci si riferisce spesso come entità quasi astorica, ma che è collocabile senza troppa imprecisione tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento) presupponeva in ogni caso la presenza primaria e attiva dei genitori.

    Mettere in discussione questa presenza, in nome di un modello che sostituisce (non affianca) il ruolo educativo delle figure genitoriali con quello di attori esterni come le agenzie di socializzazione – che dovrebbero, appunto, essere intese ad altro scopo – è una peculiarità dei nostri giorni. Ma anche ai nostri giorni emerge ben presto con chiarezza che tale ruolo sia e resti insostituibile, appena la relazione di accudimento – cui faceva cenno Serena – si arricchisce e si complica, esigendo un coinvolgimento emotivo ben superiore rispetto al cambio del pannolino. Questo è il senso del post.

    Paola

  22. Cerco di spiegarmi meglio partendo dalla mia esperienza, che differisce decisamente dalla tua (ora mi spiego perché non sia riuscita a farmi capire al primo colpo) perché, per strano che possa parere a qualche commentatore superficiale, ho affidato entrambi i miei bambini a un asilo nido, di cui peraltro sono stata molto contenta.
    Dal momento in cui sono rientrata al lavoro, più o meno quando avevano dieci mesi (e mi ritengo fortunata per questo), come molte di noi ho potuto occuparmi di loro solo per un paio di ore al giorno. Un paio d’ore per nulla sufficienti, secondo me, per prendermi cura di loro, vivere insieme, mostrare loro il mondo – il che mi sembra il significato più profondo del termine “educare”. A fare tutto questo in mia vece sono state altre figure, che hanno raccolto e soddisfatto esigenze espresse con i modi e i tempi consentiti dall’età dei bambini. Quando parlo di “delega” non mi riferisco solo al fatto che ai miei figli, come a molti altri bambini, è stato insegnato a lavarsi le mani o i denti da altri; ma al fatto che la responsabilità della loro giornata, tanto per la parte affettiva quanto per quella ludica e pratica, risiede fondamentalmente in mani altrui rispetto a quelle dei genitori. Lo ripeto: mi ritengo una fortunata ad aver potuto aspettare fino a dieci mesi di vita, mentre per molte donne che non hanno l’aiuto dei nonni o non possono permettersi tate questo avviene a volte già a partire dai tre mesi del bambino.

    Dopo aver trascorso i mesi del nido in questo modo, il passaggio alla materna è una specie di doccia fredda: la consapevolezza che i bisogni dei bambini non si limitano al lavaggio delle mani o dei denti, o al cambio del pannolino, si risveglia bruscamente, e per i nuovi bisogni che emergono non basta più (o non dovrebbe più bastare) semplicemente affidarsi ad altri. Può sembrare un’affermazione paradossale, visto che risaputamente a partire dai due-tre anni le relazioni con gli altri (amichetti, maestre e altre agenzie di socializzazione) diventano decisamente più importanti (e, per tornare alla tua testimonianza, si comincia a poter parlare di “socializzazione”; termine improprio prima di quella fase). E invece secondo me non lo è, perché questa esperienza sempre più sfaccettata e ricca dal punto di vista relazionale e formativo è nel suo complesso radicata nel rapporto primario con i genitori, nell’ascolto, nella comprensione e nell’attenzione che questi dedicano ai figli, e presuppone sempre e insostituibilmente la loro responsabilità. A questo punto, se si è stati abituati al fatto che vi fossero altri a incaricarsi di questa responsabilità, la situazione si fa difficile: c’è chi la affronta con preoccupazione e sorpresa, chi semplicemente la ignora continuando a contare, in maniera sempre più pesante, su tate o nonni, ma in tutti i casi, per chi non è abituato a “rispondere” per i propri bambini, è un momento complesso (decisamente, mi pare di aver capito, non è il tuo caso).

    Non so se sono riuscita a spiegarmi con maggiore chiarezza: il mio punto è che incoraggiare la delega educativa sin dai primi mesi di vita, come ho deprecato in varie sedi, rischia di indirizzare i genitori verso una deresponsabilizzazione del tutto illusoria. Rimpiangere il passato, come avrai capito, è l’ultimo dei miei pensieri, anche perché credo di aver spiegato quanto poco io lo idealizzi o lo consideri un punto di riferimento. La risposta per me è invece nel futuro: nella radicale trasformazione, fondata nell’innovazione e nella flessibilità, di un’organizzazione del lavoro rigida e presenzialista, che per com’è fatta oggi contempla solo due possibilità: o la delega precoce dell’accudimento prima e della relazione poi, o le dimissioni. Il mio modello, se vuoi, non è la famiglia allargata, ma la famiglia “liberata”, nella quale i bambini non sono costretti a portare le conseguenze delle scelte obbligate dei genitori, e i genitori sono messi in condizione di non scegliere tra lavoro e famiglia: non nel senso di affidare la seconda a qualcun altro, ma nel senso di gestire il primo in maniera finalmente compatibile con i desideri e gli affetti più umani.
    Paola

  23. @Mela: Capisco cosa intendi. Nel mio libro ho parlato di possibili, estreme conseguenze dell’affidamento precoce e prolungato al nido (studiate ad oggi solo nei casi della Germania Orientale, di Israele e della Cina), simili a quelle che descrivi; non tanto per documentare un rischio diffuso, quando per mettere in guardia contro gli effetti di un modello portato alle sue estreme conseguenze. Secondo me è importante restare consapevoli del fatto che si tratta appunto di un rischio estremo, e di prevenire dunque l’estensione sistemica di una pratica di delega sempre più comprensiva, richiamando l’attenzione sulle sue implicazioni emotive e sociali.

    @Monica: Non so se ti riferisci a queste opinioni facendo cenno alla polarizzazione del dialogo – se ho dato questa impressione me ne scuso. Ho distinto a più riprese la tua esperienza dalla mia solo per meglio spiegarmi; facendo cenno ai commentatori superficiali non pensavo a te, ma alla recensione sopra citata (alla quale non rimprovero la contrarietà alla mia tesi, ma la superficialità e i toni insultanti con cui l’ha trattata).
    L’interpretazione che dai della mia tesi è assolutamente calzante: a me pare che a un certo punto le risposte date a bisogni sociali ed economici contingenti siano state ipostatizzate, grazie a una buona componente ideologica, e abbiano finito per perdere in qualche modo il contatto con la realtà stessa che le aveva generate, con la sua multiformità e con l’evoluzione che nel frattempo l’ha interessata.
    Mi preme ribadire che l’intenzione di questo post non era auspicare un modello di “homeschooling” a partire dalla materna, ma far emergere un importante punto di crisi del modello di “esautoramento” che descrivi. Un modello a mio modo di vedere caratterizzato, tanto sul piano educativo quanto su quello della conciliazione, dall’assenza di una vera libertà di scelta, e dalla sempre maggiore affezione a una strada obbligata.

    @Serena: Credo che percorrere schemi già tracciati faccia in qualche modo parte dell’esperienza scolastica (se poi i nidi possano farne parte a tutti gli effetti, è un punto di discussione ulteriore, ed io ne dubito). Personalmente sono più preoccupata dalla rincorsa dei servizi alla prima infanzia a “riempire” il tempo dei bambini, impegnandoli in attività svariate, che si susseguono a ritmi serrati, e in alcuni casi non del tutto adeguate all’età dei bambini (parlo di gite scolastiche al primo anno di nido, o dell’insegnamento dell’inglese nelle sezioni ponte: in entrambi i casi si tratta di iniziative che mi lasciano piuttosto perplessa, e mi hanno lasciato l’impressione di una precocizzazione indebita; su questo argomento forse Monica, che è impegnata professionalmente oltre che personalmente nel settore, può però offrirci un confronto).

    Paola

  24. Vorrei approfittare dell’occasione offerta dall’intervento a Torino, di cui vi parlavo (i dettagli a breve qui: http://www.sottodiciottofilmfestival.it), per trasmettere gli spunti raccolti in questa sede. Dal mio punto di vista, i genitori vogliono e devono restare depositari della gioia/responsabilità dell’educazione: il che significa orientare i servizi all’infanzia meno nell’ottica della sostituzione – malgrado le esigenze di conciliazione spingano in questo senso – e più in quella del supporto e della formazione, anche degli stessi genitori.

    Grazie di nuovo a tutti/e dei commenti
    Paola