Come spiegare la disabilità ai bambini

La scuola è chiusa per tutti, perché c’è la giornata per i disabili… sono molto malati quindi i bambini si impressionano: questo cartello ha fatto il giro del web, lasciando tutti indignati. Ciò che a me ha indignato di più, però, è sapere che questa decisione è stata presa per evitare che altri bambini si mettessero a piangere e i loro genitori protestassero per l’iniziativa, come era già successo in occasione di un precedente incontro con coetanei “molto malati.

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Inutile negarlo: ci sono realtà che noi adulti preferiremmo ignorare. Il vero problema, però, non è in quella realtà che ci appare triste o scomoda, ma in noi, in noi che ci sentiamo impreparati o imbarazzati a parlarne e che, allora, scegliamo la via che al momento ci sembra più facile: rimandare o tenere a distanza ciò che riteniamo un problema.

Perché è importante parlare di disabilità ai bambini

Prima o poi, però, è inevitabile che i bambini escano dall’isola felice dentro cui vorremmo relegarli ed entrino in contatto con le difficoltà e i dolori della vita. A scuola, in famiglia, per strada o al parco, prima o poi, saranno colpiti da qualcuno che ha un aspetto o un atteggiamento diverso o strano e, allora, con l’ingenuità che li contraddistingue, inizieranno a fare domande. Chiederanno senza malizia, senza cattiveria, ma solo per capire. Un bambino piccolo – dimostrandosi più saggio di tanti adulti – istintivamente non dà alla diversità un significato negativo, anzi ne è incuriosito.

La nostra reazione, le nostre risposte e il nostro comportamento, a quel punto, faranno la differenza: possiamo scegliere se far continuare a credere ai nostri figli che la diversità sia parte e ricchezza del mondo e che parole come inclusione o integrazione non debbano rimanere solo concetti astratti oppure educarli secondo stereotipi, pregiudizi, paure, falsi buonismi e pietismi.

Come parlare ai bambini di disabilità?

Non spaventiamoci per le domande dei nostri bambini. Se non troviamo le parole giuste, possiamo ricorrere a internet, a dvd o a libri, ma è fondamentale rispondere sempre con sincerità e serenità, adeguandoci alla loro maturità e capacità di comprensione, ma senza bugie o mezze verità che li lascino insoddisfatti. Ricordiamo sempre che i bambini ricorrono all’immaginazione per spiegarsi ciò che non capiscono, perciò, potrebbero crearsi opinioni irreali o falsate su questioni da cui – anche se in buona fede – noi li teniamo fuori. Non limitiamoci, dunque, a ridurre tutto al “comunque, siamo tutti uguali”, perché è palese che non è così e rischiamo di creare solo tabù.

Non complichiamo le cose. Basta poco per far capire che – una volta chiariti i dubbi e soddisfatta la curiosità – bisogna semplicemente guardare oltre…oltre una sedia a rotelle, oltre una parte mancante del corpo, oltre un modo strano di parlare o camminare. Oltre c’è una persona come noi, diversa da tutte le altre come diversi lo siamo anche noi, più brava in qualcosa e meno brava in qualcos’altro, simpatica o antipatica, ma, probabilmente, uguale nella voglia di amare, giocare, divertirsi, emozionarsi, arrabbiarsi, piangere, gioire, imparare e…vivere! A volte, i bambini ci sorprendono e commuovono per la facilità con cui empatizzano e superano barriere anche altissime, instaurando una rapporto immediato in situazioni difficili, ma, altre volte, potrebbe esserci bisogno di una mediazione attenta.

Un deficit di un compagno, per esempio, potrebbe effettivamente far sentire nostro figlio a disagio e, nell’imbarazzo di non sapere come comportarsi, portarlo ad allontanarsi o addirittura a rifiutarlo. In questo caso, è fondamentale aiutare nostro figlio a tirare fuori emozioni, domande o timori. Facciamogli notare che le sue reticenze sono legate a un problema fisico o mentale e non al bambino in sé. Sottolineiamo sempre che un bambino è sempre un bambino, che sono semplicemente persone che, magari, comunicano o si muovono in modo diverso, ma che, in fondo, ognuno di noi ha tempi e modi diversi di fare le cose e questo non deve rappresentare un problema.

Aiutare chi è in difficoltà deve venire spontaneo e non sarebbe  giusto caricare un bambino della responsabilità di prendersi cura di un altro bambino solo per dovere. In fondo, sono per primi i bambini con delle difficoltà, a voler essere trattati in modo normale! Le amicizie si basano sulla spontaneità e la naturalezza e così deve essere anche quando gli amici sono speciali.

Educhiamo, perciò, i nostri figli al confronto che fa crescere, alla tolleranza, all’integrazione, al rispetto, ma non secondo principi teorici – che i piccoli non comprenderebbero neppure – bensì con il nostro esempio, nella vita pratica, facendo della solidarietà e dell’accoglienza un modo abituale di rapportarci agli altri.

Da leggere insieme ai bambini:
Viezzer Paola, Siamo speciali. Storie per aiutare i bambini a capire alcune diversità, Edizioni Erickson, 2009
Brownjohn Emma, Tutti diversi & tutti uguali, Gribaudo, 2011

photo credit: laburbuja via photopin cc

Author

Laureata in Economia per inerzia e poi in Scienze della Formazione per passione, ora sono felicemente educatrice e mediatrice familiare (e ancora manager, ma solo per se stessa!). Adoro giocare con mia figlia, ma non mi sentirei completa senza il mio lavoro così, da brava – per modo di dire! - MammAcrobata, provo a conciliare tutto, a costo di star sveglia fino a tarda notte. Da anni, collaboro con diverse Associazioni che difendono i diritti dei minori e sostengono famiglie che vivono situazioni di disagio o sofferenza. Sono socia di un'Associazione, in cui mi occupo di formazione ed essendo appassionata di comunicazione e scrittura, sono anche scrittrice, blogger e web writer.

3 Comments

  1. La mia bimba è handicappata, perciò ho dovuto rispondere innanzitutto alle mie ed alle domande dei fratelli, poi a quelle dei bimbi del parco giochi. Scrivi consigli molto veritieri: Bisogna a volte semplificare le spiegazioni, tradurle in termini che i bimbi possan capire, ed accompagnarle non solo dall’esempio, ma anche dal consiglio. Per esempio, mia figlia non parla ancora, cosicché i bimbi più grandi si sentono insicuri: È allora stato importante incoraggiarli, riconoscere loro il diritto di essere insicuri, invitarli a tentare, a domandare, a proporre: “vuoi giocare che tu eri la principessa ed io la regina?” – l’esperienza che l’interlocutore capisce la domanda e vi risponde ha ridotto il loro imbarazzo. Ciò non toglie, come dici tu, la responsabilità di difendere i tempi e le esigenze anche dei normodotati, perchè non sia per loro un obbligo, un peso, un lavoro, lo stare con l’altro. È un po’ come chiedere a un bimbo di II elementare di giocare col fratellino di molti anni più piccolo: chiedetelo ad un bambino senza fratelli minori e non saprà che pesci pigliare, si metterà a ridere col o addirittura del piccolino, perchè non sa ancora ricordarsi di quando era piccolo lui.

    Domani mia figlia festeggia il compleanno e le bimbe invitate sono t u t t e normodotate e felicissime dell’invito, son compagne di asilo. Per loro la diversità non ha alcun peso.
    Nell’insegnamento scolastico, beh, il discorso si fa più difficile che nel gioco. La conoscenza, sì, aiuta (anche i maestri). Far capire che non è una malattia, chè di malattia si guarisce o si muore. È un dato di fatto, come i capelli ricci, le gambe storte, la voce acuta. Ho i miei dubbi che un’inclusione priva di mezzi economici e di maestri di sostegno abbia un senso, almeno per l’ handicap mentale. Dove vivo io le alternative sono due: l’una è una scuola specializzata, a tempo pieno, con classi di dieci/quindici allievi raggruppati per livello di apprendimento e non per età, maestri specializzati, la possibilità, sia logistica che di personale, di dividere la classe in sottogruppi anche minimi; l’altra è l’inserimento in una classe elementare di 25 bambini, senza mensa e senza doposcuola, con un maestro di sostegno presente solo QUATTRO ore di lezione a settimana… Nel tempo restante nessuno che possa seguire un programma ad hoc per e con il bambino, quando la lezione fosse troppo difficile per lui.
    Questa per me non è inclusione, è parcheggio, non è insegnare ai bambini la convivenza, bensì l’isolamento del “rompipallle” che, poverino, non ci può far niente, epperò rompe. Per giunta, senza imparare un tubo.

    • Cara Lidia, è davvero preziosa la tua testimonianza e ti ringrazio per aver condiviso la tua esperienza.
      E’ importantissimo quando dici che bisogna “Far capire che non è una malattia, chè di malattia si guarisce o si muore. È un dato di fatto, come i capelli ricci, le gambe storte, la voce acuta”. Purtroppo, non sempre è automatica la comprensione degli altri e, allora, bisogna lavorarci, bisogna spiegare e anche essere fortunati nell’incontrare le persone e le strutture “giuste”.
      Fa rabbia che bambini che potrebbero e avrebbero il diritto di dare di più vengano “parcheggiati” in classe, come dici tu… fa rabbia ed è profondamente ingiusto da un punto di vista didattico e psicologico, nonchè umano. Io ti auguro, però, di incontrare insegnanti -e, per fortuna, ce ne sono tanti!- che prendano la loro professione nel senso più intimo e profondo del termine e che comprendano il ruolo e la responsabilità che hanno verso TUTTI i loro studenti.
      Si parla tanto di inclusione e io mi auguro che davvero la scuola riesca a trasformare questo concetto in fatti concreti. Spero che la festa sia andata bene! In bocca al lupo per te e la tua piccola

  2. Pingback: Scuola e disabilità: come sensibilizzare i bambini alle difficoltà degli altri | Mammeacrobate